«Io ho amato in continuazione e, se mi chiedi che cosa faccio ancora oggi, ardo d’amore.» Difficile immaginare una dichiarazione di intenti, esistenziali e poetici, più affascinante di questi pochi versi posti da Publio Ovidio Nasone (Sulmona, 43 a.C. – Tomi, 18 d.C.) all’inizio dei suoi Remedia amoris poemetto in distici elegiaci pensato come contraltare e antidoto agli insegnamenti proposti nell’Ars amatoria, il suo celeberrimo manuale d’amore. Una dichiarazione splendida, e un autoritratto estremamente adeguato, per un poeta come Ovidio che all’amore dedicò gran parte della sua produzione. Se con l’Ars amatoria, l’opera che nell’8 d.C. costò a Ovidio l’esilio in una piccola e inospitale località sul mar Nero (per decreto dell’imperatore Augusto che non ne apprezzò i contenuti licenziosi), il poeta aveva insegnato, per l’appunto, l’arte di amare, con i Remedia vuole offrire una medicina efficace per chi abbia subito gli effetti collaterali della sua stessa lezione d’amore. I rimedi sono di ogni genere e senza tempo: Ovidio maestro d’amore – e di disamore – consiglia lunghi viaggi, svaghi e distrazioni (comprese le altre donne: il poeta caldamente esorta ad amarne sempre due per volta, almeno), i soggiorni rinvigorenti in campagna ma anche il super-lavoro (perché Venere è amante dell’ozio), fino ad arrivare alla classica lista dei difetti dell’amata crudele, al vino lenitivo (ma solo in quantità smodate, per evitare rischiose malinconie) e a molti altri trucchi per guarire dalle ferite d’amore. Infine, il consiglio più importante di tutti: non prestare mai fede ad artisti e poeti… Neppure allo stesso Ovidio, tantomeno all’arguto e poetico autore della Scelta di massime consolanti sull’amore in appendice raccolta: Charles Baudelaire.
Ovidio fu un poeta romano tra i maggiori elegiaci. Tutto quello che sappiamo sulla sua biografia sono testimonianze lasciate dal poeta stesso.
Nacque da una famiglia di rango equestre. A dodici anni si recò a Roma con il fratello per completare gli studi di grammatica e retorica dei più insigni maestri della capitale, in particolare Marco Aurelio Fusco e Marco Porcio Latrone.
In questi anni compì molti viaggi: ad Atene, com’era costume, in Asia Minore, Egitto e Sicilia.
Tornò a Roma dove intraprese la carriera pubblica come un funzionario, forse, di polizia giudiziaria. Contro la volontà di suo padre (che lo vorrebbe oratore) continuò a dedicarsi agli studi letterari frequentando il circolo di Messalla Corvino prima, e quello di Mecenate dopo. Qua conobbe i più importanti poeti del tempo: Orazio, Properzio e, per poco tempo, Virgilio.
Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati, sposò una giovane fanciulla della gens Fabia, di cui rimane testimonianza nei suoi testi.
All’età di venticinque anni realizzò una delle sue opere più note al pubblico, L’Ars amatoria in cui il poeta dava consigli agli uomini in merito alle tecniche da adottare per conquistare una donna.
In età matura scrisse il suo testo più conosciuto, Le Metamorfosi.
Nell’8 d. C. fu costretto a lasciare Roma e a prendere la via dell’esilio, poiché non rispettò le regole emanate da Augusto in occasione dell’elaborazione del testo L’Ars amatoria, il quale spingeva le donne dell’epoca a commettere adulterio.
Passò così il suo esilio a Tomi, città situata nell’attuale Romania, nella quale visse gli ultimi anni della sua vita senza mai riuscire a tornare a Roma.