La sorte in 140 caratteri
di Giovanni Realdi (@giovannirealdi)
Terza liceo delle scienze applicate, entro in classe per l’ultima ora di un giovedì qualunque, e quindi abitato dall’ansia dei tempi stretti, delle interrogazioni, della dittatura del programma (nonostante la scuola delle competenze). Avevamo giorni prima affrontato la soluzione dei fisici pluralisti (il terzetto inseparabile di Empedocle, Anassagora e Democrito) alla cosiddetta aporia eleatica, e cioè ai limiti che il padre tremendissimo Parmenide aveva decretato per la filosofia a venire. Come render compatibile l’immobilità dell’essere con i fenomeni della natura, movimento incessante e creativo?
Con Democrito la questione si fa non solo più complessa, ma anche amplificata. Vive in un’epoca in cui le tematiche di ordine morale e politico sono tornate a far discutere, nelle accademie e nelle piazze. È l’epoca dei sofisti, la medesima che vede Socrate bighellonare tra i banchi del mercato. Saggiamente, quindi, il manuale fa riferimento alla visione etica del fondatore dell’atomismo. In particolare, gli autori affidano alla nostra riflessione una frase lapidaria di Democrito: «l’anima è la dimora della nostra sorte».
Ora, passare indenni un’ora con ventidue sedici-diciassettenni che sono appena usciti da un compito di matematica rappresenta già di per sé un caso di sorte avversa. Tanto più se si tratta di coinvolgerli in una questione di tipo morale (e politico) proposta centinaia di anni fa.
Che fare? Se la frase è lapidaria – al limite dell’aforisma –, ho pensato, potrebbe essere interessante lanciare loro la provocazione di tradurre Democrito in modo altrettanto immediato. Del resto, ma la questione pur interessantissima porterebbe altrove, la pratica dell'”esercizio spirituale”, chiave di volta in Hadot per spiegare la filosofia antica, non è poi così lontana dalle frasi che ogni giorno i ragazzi (e non) si scambiano sui vari social network: piccole pillole di saggezza personale che ci ricordano qualcosa di essenziale per vivere meglio.
Prendete un foglio a quadretti – esordisco ingenuo. E contatene 140, come in un tweet… E qui si è accesa la lampadina. Anzi, chi di voi ha un account Twitter può usarlo, così la macchina fa il conto per voi. Reazione immediata: ma prof, possiamo usare il cellulare in classe? Sì. Siete in un liceo delle scienze applicate? Ebbene, applicate.
Così ho parlato di Twitter e qualcuno si è iscritto al momento, tra chi non lo era già. Solo due o tre persone hanno preferito comunicarmi la soluzione, che poi ho girato in un mio messaggio. Dopo aver al momento ritwittato le loro parole, coinvolgendo @TwitSofia_it, ho riassunto poi il risultato in questo post su Tumblr.
La dinamica attuata è perfino banale. Ma la considero solo un inizio, che però ha qualche aspetto promettente. Un ragazzo giorni dopo mi scrive via email: «Prof, la mia spiegazione di Democrito su Twitter mi sta facendo guadagnare popolarità!». È vero, sul web c’è una componente narcisistica non indifferente ma non è questo il punto. Il mio studente ha preso atto delle reazioni intelligenti a una sua affermazione intelligente; ha sfiorato con mano il fascino delle cose ben dette.
E allora mi è venuto in mente Bacone, quando nel ragionare sull’esperimento e sul lavoro dello scienziato, parla di “mettere in ceppi la natura” per costringerla a rivelarci le sue leggi. Non succede lo stesso con il linguaggio, quando siamo inseguiti dall’esiguo numero di caratteri ammessi? Con la differenza che qui potremmo intuire qualcuna delle leggi che adoperiamo per pensare e parlare, e quindi essere indotti a formulare un piccolo ragionamento metacognitivo. Imparare a imparare… Si dirà che di Democrito forse non ricorderanno nulla, o forse sì. Io ci provo, perché, se Democrito mi suggerisce una cosa intelligente, forse varrà la pena ascoltarlo.
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